STORIE DI PESO

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    Victor Hugo Yañez Piña, The self made man

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    Storie di stra-ordinaria Obesità

    L' obesità è un sintomo e come tutti i sintomi rappresenta la punta dell’iceberg dei nostri disagi.

    E sotto l’iceberg che c'è?

    Di tutto, di solito le nostre ferite ancora aperte, traumi non elaborati, comportamenti disfunzionali cristallizzati nel tempo, e molto altro.

    Il rapporto disfunzionale col cibo ha una lunga storia e di solito comincia precocemente.

    Da bambini impariamo imitando, facciamo nostre le informazioni che ci danno, le sperimentiamo e le testiamo, e siccome ci fidiamo della fonte, non le mettiamo in discussione.

    Ed ecco che se siamo tristi spesso ci consolano con una brioche, un dolcino, qualcosa che nell’immaginario possa lenire la nostra sofferenza:

    “…Con un poco di zucchero la pillola va giù,

    la pillola va giù, pillola va giù. Basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Tutto brillerà di più…”

    E assieme a quello zucchero, anche la nostra sofferenza va giù, senza poter essere digerita, elaborata ed assimilata, come qualcosa che non si deve manifestare.

    Impariamo che forse è vero, che se ci metto lo zucchero la sofferenza diventa anche lei dolce, e così sofferenza dopo sofferenza, impariamo a farla sparire, come per magia.

     

    Certo che se sono triste, arrabbiato, sofferente, e mangio un maritozzo con la panna, lì per lì, ho la sensazione di stare meglio. E’ vero, è piacevole ed anche il mio cervello lo dice:

                            CICLO DOPAMINA            

                                      

    Però tutto ciò dura il tempo del maritozzo, cioè quando lo finisco è finita anche la sensazione piacevole ed il circuito ricomincia, ne ho ancora bisogno per stare bene.

    Ma tutto è effimero, e a lungo termine le conseguenze sono che ho imparato che appena si affaccia qualcosa di spiacevole io lo butto giù.

    E dove va a finire tutto ciò che ho buttato giù? Resta sempre lì dentro di me e si nasconde e a volte viene di nuovo su, ma questa volta mascherato, perchè così com’è la sofferenza, non posso permettere che salga su, anche perché si finisce per non riconoscerla più.

    E c'è H. che acquista peso ad un certo punto della sua vita, dopo le gravidanze. Prima era normopeso e celava dietro un apparente equilibrio, traumi infantili irrisolti.

    Scorrendo le pagine del libro della sua vita, precocissimo, quando è una scolara delle elementari, quando è ancora una bambina, che gioca un po' con le bambole, ed un po' a fare "la grande", ecco che un parente, una persona amata, compie un atto empio, scellerato, che segnerà la vita di H.,  un abuso.

    Concede le sue nudità, alle mani di una bambina, mani troppo piccole, troppo tenere troppo tutto, per poterla contenere, vedere e capire.

    La piccola resta molto turbata e non sapendo se ciò fosse giusto o sbagliato, buono o cattivo, visto che lo aveva fatto un parente, va dalla mamma a raccontarlo. E come succede miriadi di volte, la mamma, troppo giovane per avere una struttura, troppo ingenua e spaventata per comprendere, troppo tutto... Non le crede, mette in dubbio la parola della bambina. Anche lei fa difficoltà, come la figlia, a "pensare" un atto come questo, a crederlo vero, e presa dalle sue paure, disequilibrio, nega.

    La bambina ora è veramente in preda alla confusione più nera, al dolore più lacerante, e si cominciano a strutturare alcuni suoi sintomi, dissocia, e si purtroppo questo dolore é troppo forte da sopportare ed il suo organismo, lo rifiuta, quindi tutto viene posto in un luogo lontano dall’ essere ricordato, e lontano dal procurare dolore.

    Oggi questa bambina confusa e dolorante ritorna da H. e chiede.

    Cosa chiede? Tutto ciò che quella madre in disequilibrio interno e troppo presa della sue difficoltà, non le ha potuto dare: amorevolezza, comprensione, accoglienza, coccole.

    Lo chiede alla se stessa adulta, che ora può dargliele. A colei che ora, si può permettere di tornare lì, dove tutto il dolore ha avuto inizio, e provare a lenirlo, sanarlo, renderlo contattabile.

    H. viene in consulto per i suoi problemi di Peso che nel tempo, anche con molti sforzi ed interventi di vario tipo, non è riuscita a risolvere. Perchè?

    Perché troppo complessi per essere presi in carico da varie professionalità, slegate tra loro.

    Il fallimento delle dietoterapie non era dovuto alla non bontà dell’intervento quanto al fatto che H. non era pronta ad affrontare il cambiamento richiesto.

    Le sofferenze celate al di sotto del suo adipe, vanno ben oltre un mero comportamento disfunzionale col cibo.

    Durante i colloqui mettiamo da parte la dieta, e cerchiamo i presupposti per gettare le fondamenta per potersi permettere di affrontarla e di affrontare i cambiamenti ad essa connessi.

    Quali cambiamenti?

    Innanzitutto il permettersi finalmente di vedersi, così com’è, e H. sperimenta quanto si stia schiacciando, autoboicottando e punendo.

    La rivelazione le viene quando le faccio scegliere un pupazzetto e se lo ritrova sotto la suola delle sue scarpe.

    “Questa sei tu H. e questo è ciò che ti stai facendo”. Sale lo sconcerto, e contatta tanto disagio, tristezza e dolore. H. non è abituata a sentirsi, non riconosce nemmeno le sue sensazioni. Ha messo un barriera tra sé e il suo mondo interno, dove dolore e tristezza sono banditi e non voluti.

    Certo dopo una vita cominciata precocissimamente nel dolore è difficile potersi permettere di riaccostarsi ad esso. Ha imparato che non va bene, che fa male, e appena arriva a lei una sensazione o emozione dolorosa, viene immediatamente bloccata, si scherma immediamente, rompendo il contatto.

    Questo dolore dove va? Di certo partendo dall’assioma che non si può non sentire, in quanto esseri umani, quel dolore resta lì, in un antro recondito del suo mondo interiore, e fa sentire la sua presenza con la spinta a mettere in atto comportamenti disfunzionali che si auto alimentano. Come quello del maritozzo con la panna.

    Il primo passo verso il potersi prendere cura di lei e del suo stato è stato proprio vedersi, visualizzarsi e pian piano accostarsi a se stessa, un po’ alla volta, cominciando a permettersi di sentire, lì con me, in una condizione di sicurezza.

    E nel suo viaggio nel mondo del sentire se stessa e dell’autoascolto, impara che può, ora che è adulta, poter stare col suo dolore, senza sfrangersi; e che dopo paradossalmente sta meglio.

    E impara a discernere tra ciò che è veramente buono per lei, e ciò che ne aveva solo la parvenza, ma che in definitiva ha finito per essere deleterio.

    Così è pronta anche a vedere e percepire che il suo modo di mangiare non è buono per lei, e che la porta a star male.

    Ecco, dopo essersi permessa di entrare nella stanza della sua sofferenza, elaborando le vicende traumatiche che le sono accadute, ora è pronta per andare da un dietologo e per cambiare il suo stile alimentare.