STORIE DI VUOTI

Depressione, un vuoto troppo pieno

Oggi sono con Z. una donna di media età. Entra nello studio con movimenti lenti e delicati.

Si siede dolcemente sulla poltrona e mi guarda con sguardo mite, come al solito.

Mi dice di sentirsi triste, come incapace di muoversi nel mondo, cerca di agire sempre con attenzione ed estremo riguardo per l’altro, non vuole nuocergli in nessun modo.

Ora più che mai.

E’ durante una cena a cui ha partecipato dopo giorni di solitudine e dopo vari pensamenti, che si manifesta il suo disagio.

La persona che l’ha invitata ha dei genitori anziani ed in quel mentre scatta la sua preoccupazione per la vicinanza (siamo a giugno 2020 tempo di covid e distanziamento), anche se non è eccessiva, e se la cena sta avvenendo all’aperto.

Il suo turbamento sembra travalicare la preoccupazione per il momento storico che stiamo vivendo. Dice di essersi sentita si preoccupata, ma anche troppo vicina, quasi troppo presente.

Il suo corpo ha cominciato a ritrarsi sempre più, quasi a voler scomparire, non riesce a godersi la serata.

Sembra che si stia palesando un fantasma antico.

Le chiedo come si sente mentre mi racconta l’evento, e oltre alla preoccupazione, mi parla di tristezza, che sembra venire da lontano.

Cosa la rende così triste in questo momento?

Lei: il fatto che non riesco a stare con le persone, a godermi dei momenti come questo. Quasi mi

sento incapace.

Sensazioni ed emozioni cominciano a pervaderla, piange, piange molto.

L’intensità emotiva che sta esprimendo mi sembra eccessiva per poterla riportare solo al momento presente, a quella cena.

C’è altro, tanto altro.

Le chiedo se si è sentita così altre volte, cosa le ricorda della sua vita, della sua storia.

E subito la mente va ad alcuni ricordi.

Lei: eh! Sempre a quella bambina, alla bambina che ero. Da bambina ho imparato a non dare fastidio, a stare buona. Mi dicevano che potevo stare per ore ed ore a giocare con la mia bambola, senza disturbare, senza far rumore.

Le chiedo che effetto le fa aver rievocato questo ricordo, che ora prepotentemente sta impattando nel suo presente, rendendolo pesante.

Lei: beh! Triste, tanto triste (piange molto), mi ricorda che non c’era nessuno, ero sola.

Mi dispiace vedere quella bambina così piccola e così sola (piange singhiozzando, sembra disperata).

Le dico che sì, è tremendamente triste immaginarmi quella bimba di 2 o 3 anni, che è ferma in un angolo a giocare sola per ore con la sua bambola, è struggente, è vero.

Cosa vorresti ora per te, in questo momento?

Lei: eh! Mi piacerebbe dire a quella bambina che non è sola, che ci sono io ora, mi piacerebbe giocare con lei.

Le chiedo se le va di fare un’esperienza.

Lei: si certo.

Le metto davanti una sedia vuota con un cuscino sopra e le chiedo di immaginarsi quella bambina, di farla diventare concreta ora, come se stesse seduta su quella sedia, davanti a lei.

Le dico: immaginati che quella piccolina ora sia proprio seduta su questa sedia, come te la immagini?

Lei: seduta composta, con la bambola in mano, i piedi sono penzolanti. Sta giocando in silenzio con la sua bambola.

Le chiedo che effetto le fa vederla ora così su quella sedia

Lei: tristezza e tenerezza .

Le chiedo se vuole dirle qualcosa o fare qualcosa ora.

Lei: è difficile, non riesco a parlarle, a dire nulla, non so che fare.

Nel frattempo che dice questo però il suo corpo si è completamente proteso verso la sedia e il suo sguardo è fisso sulla proiezione di quella bambina.

Le dico: beh! Mi sembra che il tuo corpo ti stia un po’ contraddicendo, non trovi? Guardati, sei completamente protesa verso di lei e non le togli lo sguardo di dosso. Credo invece che tu sappia cosa dirle o fare non trovi?

Lei: eh! Si è vero! Ho voglia di farle sapere che sono qui, che ci sono.

Io: bene mi sembra che tu lo stia già facendo, vuoi aggiungere qualcosa?

Il tutto sta avvenendo in clima ovattato. Davanti a me, si materializza un quadro antico di fine ottocento in cui una donna osserva la sua bimba giocare, con amorevolezza, come solo una madre sa fare, intorno a loro un tempo sospeso, sono come in un cameo.

Mary Cassat, madre che gioca con figlio, 1897

 Mi è difficile fare altro, non voglio spezzare la poesia che sta avvenendo davanti a me, tutto è soave e cerco di rispettarlo.

Lei: le voglio chiedere come si chiama la sua bambola.

Io: ok prova a chiederglielo.

Lei sempre protesa verso la bambina e con voce soave e sguardo dolce dice: come si chiama la tua bambola?

Mentre le chiede questo con voce soave e sguardo amorevole, tutto diventa più intenso e colorito. Non c’è bisogno di dire o fare altro.

Quell’istante è così denso di contatto, presenza, amorevolezza, che mi spinge solo ad esserne testimone.

Dopo alcuni istanti di silenzio, le chiedo come si sente ora, cosa sta provando.

Lei: quasi sollievo, una sensazione piacevole, come se mi fossi tolta un peso, bello!

Quando ci immaginiamo una persona Depressa, la immaginiamo vuota, come se fosse priva di senso, apatica. Non è così!

Chi è depresso spesso invece è molto pieno, quasi a fare fatica a contenere ciò che c’è.

Pieno di dolore e tristezza e senso di solitudine, che col tempo sono diventati talmente difficili da esprimere, che si sono incarnati, e così tutto si è quasi fermato, il tempo e lo spazio, anche i propri pensieri e le azioni lo sono, come tutto il resto, sembrano aver rallentato il loro moto.

E’ vero che si fa fatica ad alzarsi e a fare tutto, è vero che ci sembra di essere senza forze, è vero che possiamo pensare di stare male, di avere delle malattie.

Queste persone hanno sopportato e sopportano, senza possibilità e libertà di potersi esprimere, tanta sofferenza. E se sto così è ovvio che tutto mi è difficile, anche solo cucinare o fare la spesa.

Il primo passo è stato palesare questa condizione, darle un nome, Depressione, e col nome riconoscergli dignità d’esistenza, e poi sostenere la grande sofferenza che c’è, con l’imparare a confortarci e a darci autosostegno.

Quel sostegno che ci è mancato e che in quel momento da soli non siamo riusciti a concederci, magari perché troppo piccoli, troppo ingenui ed inesperti, in un mondo che non ci ha visti, riconosciuti, nel nostro malessere.

Guardando in faccia la nostra parte sofferente, ora possiamo darci possibilità, in primis quella di darle spazio.

Solo allora potremmo cominciare a pensare di poter elaborare il nodo cruciale di quella sofferenza, che nel tempo si è cronicizzata.

Dante Gabriel Rossetti, Elisabeth Siddal, 1855